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Journal

Iyengar News Pratica Scienza Yoga Studies

04 Marzo 2020

Lo yoga ai tempi del coronavirus

Chiara M. Travisi


Solo dieci giorni fa non ci saremmo di certo aspettati di trovarci a fare lezioni video a causa di un’emergenza sanitaria che, seppur all’orizzonte, percepivamo come lontana e non concreta. Lungi dal voler entrare nel merito della situazione in generale, come praticante e studiosa dello Yoga penso che questa esperienza possa essere un’occasione per ragionare sull’utilità di questa disciplina. Ai tempi del coronavirus, a cosa dovrebbe servirci lo Yoga?

 

Se pensiamo a ‘yoga’ come a esercizi corporei fine a sé stessi, la risposta potrebbe essere che esso ci ‘salverà’ (esagero intenzionalmente) rinforzando il nostro sistema immunitario e avendo contribuito, già precedentemente, a mantenerci in una condizione di salute. Questo può essere sicuramente un aspetto da non tralasciare: i benefici per la salute di yog-asanae pranayama sono ampiamente documentati dalla letteratura scientifica e come Iyengar Institute abbiamo già condiviso delle pratiche per stimolare il sistema immunitario. Ma, se adottiamo una prospettiva Patanjialiana, il ragionamento potrebbe farsi altrettanto interessante e questa situazione sgradevole diventare un memento di alcuni dei principi più importanti della filosofia alla base dello Yoga di Patanjiali, nonché un banco di prova per i praticanti (e soprattutto per gli insegnanti), per capire fino a che punto tali principi hanno fatto effettivamente presa su di loro.

 

In questi giorni tutti noi, chi più chi meno, ci siamo ritrovati a pensare all’epidemia in una condizione psicologica di preoccupazione, ansia o addirittura paura e panico. Dal punto di vista dello Yoga dovremmo domandarci: dove finisce una giusta e responsabile preoccupazione (che ci fa assumere comportamenti doverosi e responsabili atti a proteggere noi stessi e gli altri) e dove inizia una proliferazione eccessiva di pensieri negativi rivolti al coronavirus? Siamo lucidi o siamo vittime di bias cognitivi che ci fanno, ad esempio, sentire già ammalati?

 

Nella sua acutissima e modernissima descrizione delle vrtti (le fluttuazioni della mente) Patanjali (YS I.5-I.11) descrive il funzionamento della cognizione (citta) suddividendolo in cinque momenti chiave: il processo di acquisizione di informazioni provenienti dal mondo esterno attraverso gli organi di senso (pramana); la loro interpretazione (viparyaya); la loro categorizzazione (vikalpa); la loro archiviazione nel plesso della cognizione o mente (citta). Pramana è l’acquisizione di informazioni attraverso gli organi di senso (diretta o indiretta). Viparyaya è il momento in cui citta interpreta le informazioni che gli giungono dagli organi di percezione. Vikalpa è la concettualizzazione, ovvero la categorizzazione delle informazioni dal mondo esterno che, secondo Patanjiali, vengono suddivise da citta in sgradevoli (dvesa) o gradevoli (raga) e, di conseguenza, messe in oblio (nidra) o in memoria (smrti). Nel momento in cui ci dovessimo imbattere nuovamente in situazioni/esperienze già categorizzate come dvesa (sgradevole) o raga (gradevole), proveremmo sentimenti di repulsione e attrazione, rispettivamente.

 

Proviamo a immaginarci come funzionano le vrtti nella situazione attuale. Le informazioni “dal mondo” sul conoravirus arrivano martellanti sotto forma di immagini (persone con mascherine, ospedali da campo, scuole chiuse) e discorsi (interviste a virologi, infettivologi, politici, nonché discorsi da bar e sentito dire). La nostra citta (cognizione/mente) li elabora e li categorizza senza indugio come dvesa (sgradevoli) e li interpreta come esperienze da mettere in oblio e da evitare con ogni mezzo (nidra). Più riceviamo stimoli legati al coronavirus (classificato come dvesa), più si rinforza il senso di repulsione e preoccupazione. Fin qui, nulla di negativo, dato che questo meccanismo ci serve (e ci è servito evolutivamente) per evitare pericoli e situazioni potenzialmente dannose. Il problema è che questo stesso meccanismo, se sovradimensionato, ci può portare anche a bias cognitivi e ad illusioni. In altre parole, possiamo involontariamente entrate in uno stato d’allerta sovradimensionato, tale da attivare stati d’ansia eccessivi e ingiustificati, fino a crederci malati e a percepire addirittura i sintomi della malattia (come la difficoltà respiratoria). Viveka, la nostra capacità discriminatoria, viene meno a causa di una sovra-produzione di pensieri ansiogeni legati all’esperienza negativa che colleghiamo al virus (seppur ancora ipotetica). Allo stesso modo, potremmo guardare con sospetto persone di nazionalità cinese (o provenienti dal Nord Italia) perché abbiamo associato il virus alla loro provenienza geografica. Ovviamente, si tratterebbe anche in questo caso di una totale assenza di capacità discriminatoria.

 

Ora, anche se questi stati emotivi sono generati da illusioni (ovvero paure per eventi ipotetici non ancora accaduti), gli stati corporei che esse generano sono assolutamente concreti: accelerazione del battito, aumento del cortisolo, difficoltà respiratorie, confusione, ecc. In una parola, ipocondria. Ed è qui che le pratiche corporee Yoga ci possono venire subito in soccorso. Infatti, prima di riuscire a “oggettivizzare” la mente vedendone il funzionamento (e il susseguirsi delle 5 vrtti) – cosa che richiede un costante allenamento a questa interessante prospettiva Patanjialiana – possiamo però intanto attenuare lo stato d’ansia e confusione mentale con gli esercizi corporei tipici delle tecniche yoga (yoga-asana e pranayama) che lavorano sul “sintomo” anziché sulla causa scatenante, che verrà affrontata più gradualmente. Quindi, ben vengano tutte le pratiche di yog-asana e pranayama, siano esse più passive o più attive. Le pratiche più passive – ad esempio pratiche di pranayama incentrate sull’espirazione, posizioni in avanti con supporto per la fronte o posizioni supine di apertura del torace anteriore – inducendo un rallentamento del ritmo respiratorio, contribuiscono ad attenuare i sintomi fisiologici dovuti a condizioni di stress emotivo. Analogamente, pratiche più attive – ad esempio l’esecuzione di asana come eseguiti nell’Iyengar yoga (cioè con un ingaggio costante di attenzione e concentrazione) – allenano la capacità discriminatoria (viveka) che può agire senza il rumore di fondo dei pensieri soggettivi. Esse infatti distolgono la mente dai pensieri ansiogeni determinati dalla situazione contingente, sulla quale abbiamo peraltro solo un piccolo margine di controllo.

 

A questo proposito, vale anche la pena ripensare al concetto di parinama. In estrema sintesi, nella visione degli Yoga Sutra (e delle tradizioni ascetiche e filosofiche coeve con cui il testo dialoga) tutto è in divenire (parinama), interdipendente (samskara) e fuori dal nostro controllo, arduo (tapas). La realtà e la maggior parte dei fenomeni – da quelli più piccoli e insignificanti a quelli più complessi – non sono di fatto sotto il nostro completo controllo, anche se erroneamente crediamo che lo siano e ci comportiamo come se lo fossero, con le conseguenti frustrazioni psicologiche (dukkha).

 

Analogo principio si ritrova in altre e polisemiche tradizioni filosofiche, dagli yogachara buddhisti agli stoici romani, pur con differenti sfumature. Ad esempio, il pratitya-samutpada buddhista (origine-dipendente), sottolinea la nozione Buddhista che la cognizione umana tende a una visione non corretta della realtà (non ne vede le infinite e incontrollabili interdipendenze né l’inpermanenza) e analizza l’insorgere di dukkha (sofferenza) come processo psicologico.

 

Gli stoici greci e romani (Epitteto, Marco Aurelio, Seneca, ecc.), d’altro lato, esplicitano questa idea in modo ancor più chiaro. L’esperienza di vita viene infatti bipartita in cose e fenomeni che dipendono da noi e cose che invece non possiamo controllare. Sono sotto il nostro controllo esclusivamente i nostri comportamenti individuali (ad esempio le cautele igienico sanitarie che stiamo prendendo in questo momento) ma i risultati di essi sfuggono alle nostre previsioni. Sappiamo dove lanciamo la freccia ma non dove atterrerà, per citare una celebre metafora che troviamo nelle Diatribe di Epitteto.

 

Quindi, che fare?

Pratichiamo lo Yoga ai tempi del coronavirus non solo nella convinzione che le sue pratiche corporee possano contribuire a rinforzare il nostro sistema immunitario e a sostenere la nostra salute fisica e mentale, in generale. Pratichiamo Yoga ai tempi del coronavirus, anche e soprattutto fuori dal tappetino (che per molti in questi giorni rimane arrotolato) cominciando a fare un lavoro di osservazione sulla nostra cognizione (citta). Incominciamo a guardare i nostri processi mentali (e stati emotivi) da spettatori, oggettivandoli. L’esercizio sarà sicuramente interessante e potremmo, oltre che ridurre gli stati d’ansia, anche appassionarci sinceramente alla proposta di metodo del nostro Patanjiali.

 

Per concludere, ricordiamoci anche che l’obiettivo ultimo dello Yoga Patanjialiano è la rottura del processo di personificazione che ci fa dire “io sono” e che ci separa dagli altri. Samadhi e Kaivalya significano esattamente questo. Rifletterci in questi momenti non può che essere un forte invito alla solidarietà e ad assumere comportamenti responsabili e dignitosi contro il panico.

 

Bibliografia

Patanjiali (2015). Yoga Sutra. (a cura di ) Squarcini Federico. Ed. Nuova Universale Einaudi
Patanjiali (2009). The Yoga Sutra of Patanjiali. (Eds. ) Edwin Bryant. Ed. North Point Press.
Epitteto (2009). Tutte le opere. (a cura di), G. Reale e C. Cassanmagnago. Ed. Bompiani.
Massimo Pigliucci (2018). Come essere stoici. Riscoprire la spiritualità degli antichi per vivere una vita moderna. Ed. Garzanti

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