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06 Luglio 2022
Il governo del respiro: giusti tempi, giusti effetti
Chiara M. Travisi
 
Il corpo, le membra, gli organi d’azione e di senso, la psiche sono molto “nostri”.
Il respiro non è altrettanto “nostro”. Tuttavia, il respiro è più di ogni altra cosa “per noi”.
 
Prashant Iyengar
Pranayama: a Classical and Traditional Approach
 
Il prāṇāyāma, ovvero le pratiche di de-automatizzazione e controllo dell’atto respiratorio, sono attestate sin dalle prime fonti testuali che descrivono percorsi ascetici e yogici basati sul governo della respirazione. Il Buddha praticava il prolungamento della fisiologica pausa al termine della completa espirazione (oggi la indicheremmo con la tecnica bāhya kumbaka) e la stessa tecnica è annoverata da Patañjali (in Yoga Sutra I.34.) tra le pratiche utili alla rimozione degli ostacoli (viksepa) che distraggono citta, il plesso della cognizione, propedeutiche al conseguente raggiungimento della condizione di samāpatti e, quindi, di sabīja samādhi.
 
Indipendentemente dal substrato filosofico e soteriologico a cui le varie tradizioni ascetiche facevano riferimento, c’è dunque qualcosa, nel controllo del respiro, che ha da sempre attratto l’attenzione degli asceti i cui sforzi ardenti erano rivolti al governo delle proprie proliferazioni di pensiero e alla sublimazione del proprio asmitā, senso dell’Io. La de-automatizzazione del respiro, analogamente e ancor più della de-automatizzazione degli schemi corporei che si sperimenta nella pratica degli yog-asana, centra e raggiunge il bersaglio della cognizione superiore e, oggi, i meccanismi fisiologici alla base di questo processo cominciano ad essere compresi (si veda per esempio, Yackle et al., 2017 e Stern, 2017).
Rischi e benefici
Come a volte accade, tuttavia, rischio e ricompensa sono direttamente proporzionali. Così, se da un lato il governo del respiro promette grandi risultati “ascetici”, i rischi derivanti da una pratica di prāṇāyāma grossolana e scorretta sono altrettanto noti, da quel dì. Tra gli altri, in Haṭhayoga Pradīpikā (II, 16-17), l’autore ammonisce il praticante ad apprendere le tecniche in modo graduale per evitare di esserne annientato e, similmente, in un commentario śaivaNārāyanakantha mette in guardia sul fatto che una pratica eccessiva di prāṇāyāma può portare a prolasso addominale, respiro faticoso, insanità ed epilessia (si veda Mallison and Singleton, 2017 pp.128). Viene da chiedersi come lo praticassero, esattamente, per esporsi a tali rischi ma, senza andare troppo lontano, chiunque abbia un minimo di confidenza con queste pratiche sa come ogni giorno (o sessione) di pratica faccia storia a sé, e come un prāṇāyāma soddisfacente richieda condizioni create in modo non casuale e coltivate per lungo tempo. Mi riferisco al fatto che la stabilità della colonna, la morbidezza di tutti i tessuti (trapezi, muscoli intercostali interni ed esterni, diaframma, tessuto polmonare, organi addominali, cervello), la raffinatezza del tocco del respiro (vuoi con narici libere o manipolate dalle dita nel prāṇāyāma digitale), la capacità di essere interamente assorbiti dal respiro non si ottengono né in pochi giorni né con un accanimento esagerato: semplicemente, ci vogliono anni di pratica.
Un approccio graduale e consapevole
Sotto questo profilo, nella tradizione di B.K.S. Iyengar il prāṇāyāma viene approcciato con estrema gradualità, utilizzando la pratica delle yog-āsana in modo propedeutico. È su questo terreno meno scivoloso, infatti, che gli allievi cominciano a cimentarsi con l’idea di “abitare il corpo” e con quella che Iyengar chiamava l’ intelligenza del corpo, ovvero la capacità si sentire il corpo in tutte le sue parti: dapprima quelle più grossolane (piedi, gambe, braccia, mani, scapole, dorso, torace, petto, ecc.) e poi quelle più raffinate (pelle, organi interni, organi di senso, cervello); dapprima una o poche parti per volta e poi tutte, simultaneamente, in una condizione immersiva completa. Gradualmente, i tessuti perdono rigidità, acquisiscono elasticità e sensibilità. Indipendentemente dalle ampiezze di movimento possibili per ciascun praticante, nuove possibilità di movimento e azione coordinata di corpo-respiro-mente diventano esperienze dirette. Negli āsana ci può essere tapas: vigore, determinazione, volizione, si può lavorare sulla durata (per amplificare gli effetti psico-corporei di ciascuna postura e i relativi processi biochimici) e persino cimentarsi con l’idea di superare, con rispetto, il proprio limite. Nel prāṇāyāma no, la volizione rema contro e mette a rischio il praticante e palpitazioni, senso di pesantezza nell’area retrosternale, irritabilità, fiato corto, possono divenire esperienze comuni.
 
Sviluppare stabilità e morbidezza
Durante il prāṇāyāma, indipendentemente dalla tecnica che si approccia, il lietmotiv dovrebbe essere la morbidezza. Fuorché la colonna vertebrale, che rimane stabile e vigile in ogni istante, tutti i tessuti devono trovarsi in una condizione di rilascio e morbidezza. È morbido il contenuto dell’addome, durante l’espirazione e l’inspirazione; è morbido il contenuto del torace durante l’espirazione e l’inspirazione. È morbido il contenuto del cranio, durante l’espirazione e l’inspirazione. Ripeto in continuazione agli allievi (e così i miei colleghi) di non forzare né l’espirazione né l’inspirazione e di non vedere la pratica di nuove tecniche come un traguardo. Si possono fare ottimi prāṇāyāma in posizione sdraiata, utilizzando eventualmente vari tipi di supporti per il torace (ad esempio, una coperta piegata, dei mattoni o un bolster). Quando la colonna e la parte posteriore del torace ricevono un adeguato supporto il praticante non si irrigidisce nel tentativo di mantenere la colonna vertebrale stabilmente estesa nella sua parte anteriore, così come succede spesso in posizione seduta. Inoltre, in posizione sdraiata (con supporto per il torace), l’addome si svuota spontaneamente e si creano le condizioni foriere dell’uḍḍīyana bandha, così utile a creare un senso di vacuum anche nel cervello, senza che il diaframma o gli organi di senso si contraggano nello sforzo.
Per tutti, i primi tentativi di prāṇāyāma da seduti sono caratterizzati dal compromesso tra lo sforzo di rimanere con la schiena dritta e il sentire il respiro che fluisce, si muove e si fa spazio su un substrato soffice. Se una porta è chiusa a chiave, la dovrete aprire a spallate; se è socchiusa, basterà un tocco delicato. Analogamente se, come diceva B.K.S Iyengar, il torace è “aperto” (ovvero il dorso in grado di estendersi, il torace anteriore in grado di aprirsi morbidamente, il tessuto polmonare elastico e morbido), il respiro permeerà i polmoni diventando profondo e pieno, come l’acqua permea un terreno fertile, soffice e poroso. Se il torace è chiuso (rigido e poco elastico nelle giunture, muscoli intercostali, diaframma ecc.), il respiro dovrà inizialmente scivolare rimanendo in superficie, prima che si possa renderlo profondo e pieno. Rendere forzatamente profondo il respiro, spingendolo su un substrato rigido e secco quale un terreno arido (come avviene da principianti), non farà che generare frustrazione e disagio, irritando il sistema nervoso anziché calmarlo.
 
Dal corpo grossolano al corpo sottile e viceversa
Nella pratica degli āsana, il movimento procede dal corpo grossolano a quello sottile, che è ignoto. Il corpo si schiude alla propriocezione ed enterocezione e si frammenta – da monoblocco grezzo e indifferenziato a molteplici punti di osservazione, sensibilizzazione e feed-back – per poi ri-assemblarsi nella sua integrità quando la mente vi si diffonde pienamente. Nel prāṇāyāma il movimento procede dal respiro, che è sottile ed interiore, al corpo grossolano esterno, che deve essere pronto e adeguatamente predisposto a gestirlo e assorbirlo. Mentre negli āsana il praticante è quasi totalmente esente dal rischio di auto-suggestione, nel prāṇāyāma può succedere. Negli āsana è difficile confondere una sensazione di immersione nel corpo e “mente diffusa” con altro – perché c’è la fatica e si percepisce chiaramente la concretezza materiale e reale del corpo – nel prāṇāyāma è invece facile illudersi di essere in una condizione di prossimità alla meditazione quando invece si è scivolati in un torpore senza chiarezza, in uno stato illusorio.
Una mente ricettiva e quieta
La chiarezza e la lucidità mentale da mantenere nel prāṇāyāma, propedeutiche ai vari gradi di assorbimento (samyama: dhāranā, dhyāna, samādhi), si imparano senza rischi nella pratica degli āsana e diventano traguardi tangibili, stabili e concreti. Il praticante impara la strada per raggiungere tale condizione mentale, che non è “straordinaria” ma di certo è “non-ordinaria”. Il prāṇāyāma potenzia la chiarezza e la lucidità mentale se c’è un substrato e una preparazione adeguata. Altrimenti, il praticante rischia l’autosuggestione o il dover gestire qualcosa che non è pronto a gestire. Anche il semplice stare seduti fermi di fronte al turbinare dei propri pensieri può mettere in crisi un neofito. Di qui l’importanza di avere un punto di tenuta, un supporto (ālambana) sul quale far poggiare e sedere la cognizione. Nell’Iyengar Yoga il supporto sono gli āsana (dove la tecnica è appunto appiglio per la cognizione) e, nel prāṇāyāma, il supporto è la colonna. Ecco perché la durata di tenuta degli āsana nell’Iyengar Yoga cerca di essere protratta, anche con l’uso dei props (i supporti quali cuscini, mattoni, cinture, sedie e altri supporti in legno specifici). Come diceva Guruji, “Per me il prop non è solo per l’asana. Esso dovrebbe contribuire alla posizione del corpo che a sua volta consente alla mente di essere calma e in uno stato di “chitta vritti nirodha”. Il corpo è il mio primo prop. Il corpo è un prop per l’anima [..].”
 
Consigli per i neofiti
Il consiglio che mi sento di dare a chi non è molto pratico ma vuole cominciare ad approcciarsi al prāṇāyāma è di concedersi il tempo di iniziare con semplici osservazioni del respiro in posizione sdraiata, savasana, con o senza supporto, o in posizioni supine (supta baddha konasana, supta swastikasana, ecc.). Le indicazioni potrebbero essere: lasciare che il supporto sotto la schiena crei le condizioni di stabilità della colonna, delle scapole e di apertura del torace anteriore, lasciare che l’addome si svuoti, permettere al respiro di mettere in movimento il torace e non viceversa, essere oggetto del respiro e non soggetto, essere respirati e non respirare. Solo dopo, iniziare (ma senza tapas!) col governo del respiro.
Bibliografia
B.K.S. Iyengar (1981). Light on Pranayama. Eds. George Allen & Unwin Ltd. London.
Mallison J. and Singleton M. (2017). Roots of Yoga. Eds. Penguin Random House.
Prashant Iyengar (2014). Pranayama: A Classical and Traditional Approach. Eds. Ramamani Iyengar Memorial Yoga Institute (RIMYI).
Stern P. (2017). “The calming effect of breathing”. In Science 31: Vol. 355, Issue 6332, pp. 1386-1387.
Yackle K., et al. (2017). “Breathing control center neurons that promote arousal in mice”. In Science 31: Vol. 355, Issue 6332, pp. 1411-1415.
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